IL MAGO DI RIGA di Giorgio Fontana (Sellerio)

Complicare: nelle sue mani le normali leggi degli scacchi, e persino le leggi della fisica – oh, il noioso mondo reale retto dalla gravità – parevano disfarsi, sostituite da nuovi principi.

Questo piccolo e densissimo romanzo è una sorpresa: Fontana condensa la vita di uno dei più grandi scacchisti sovietici nel racconto della sua ultima partita, avvenuta poco prima della sua morte. Attraverso ricordi e voli delle memoria Michail Tal’, conosciuto come Misa, il mago di Riga, ricostruisce la sua vita riempiendo i vuoi tra una mossa e l’altra dell’avversario.
Il mondo degli scacchi durante la guerra fredda sembra una bolla nel caos mondiale e Misa ne era un protagonista assoluto. Diventato il più giovane campione di scacchi a soli 24 anni, la sua impostazione di gioco ha rivoluzionato il concetto stesso di partita. Ma Misa era così anche nella vita reale non solo sulla scacchiera, un anima irrequieta intollerante alle regole, anche quelle che lo avrebbero salvato da una morte annunciata, neppure la paura del comunismo poterono fermarlo dal vivere la sua vita seguendo le stesse regole rivoluzionarie che imponeva ai suoi avversaria sulla scacchiera.

Giorgio Fontana ci regala uno spaccato di vita lontano dalla nostra quotidianità, eppure in qualche modo ci fa appassionare a questa figura che tremante e malata non accetta di cedere il passo alla rassegnazione, continuando a complicare la propria vita e il proprio gioco per trovare soluzioni alternative per la vittoria.

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LO SPUTO di Marzia Sabella (Sellerio)

Allungò il giro. Passò davanti alla schiera dei carcerati, quasi si fosse smarrita tra i banchi e i corridoi segnati dalla scarna mobilia, e si soffermò davanti a ciascuno di loro. E a ognuno di loro sputò addosso spalancando gli occhi sanguigni. Puh, puh, fango puh, merda puh, munnizza puh, purritu puh, puh.

Non si può certo dire che Serafina Battaglia fosse una donna come le altre: la sua vita è stata una battaglia continua contro i pregiudizi e gli stereotipi. Prima si ribellò contro chi la voleva suora, calma e rassegnata in un convento, si fece sposare quasi per forza da un compaesano per poi lasciarlo, cornificandolo pubblicamente con Stefano Leale, un mafiosetto del posto che gestiva una torrefazione di copertura che serviva per lo più come punto di ritrovo per i traffici mafiosi. Divenne così parte integrante di un sistema che davanti ai suoi occhi di donna non si preoccupava di celare i suoi meccanismi. Ma a causa del suo carattere così entrante e prepotente si causò una frattura fra Stefano e gli altri compari che lo condannarono a morte, uccisero lui perché lei in quanto donna non era degna nemmeno di essere presa in considerazione come bersaglio di un attentato mafioso. Ma Serafina non abbassò la testa e anzi fece in modo che suo figlio Salvatore, un ragazzo appena ventenne che non aveva mai dimostrato interesse verso il mondo mafioso, vendicasse l’uccisione del padre. Tentativo fallito miseramente che gli si rivolse contro, finendo lui stesso ammazzato per strada.

Così Serafina, donna di mafia, che conosceva i segreti, i nomi e gli intrallazzi della cosca locale, si fece prima testimone di giustizia donna, prendendo posizione duramente contro i boss locali, denunciando e portando la sua voce in giro per i tribunali italiani. Sfidando così nuovamente uno stato delle cose accettato e prestabilito: le donne non parlano. Alle donne non è riconosciuta quella dignità e quella presenza tali da permetterle di essere testimoni in un processo per mafia. Il fatto stesso che nelle regole mafiose donne e bambini non potessero essere toccati la dice lunga su quanto poco fossero considerate. Eppure Serafina ha fatto tutto quello che una madre e una moglie farebbe per ottenere giustizia per la morte del marito e del figlio, accettando di mettere a repentaglio la propria stessa vita pur di gridare in aula la colpa delle coppole.

(DOUBLE RATES APPLY) Serafina Battaglia accusing Sicilian mafia with the murder of her husband Stefano Leale and her son Salvatore Leale in the room of Palermo’s courthouse. Palermo, 1962. (Photo by Enzo Brai/Mondadori via Getty Images)

Che può dire o fare una donna di quella fattura che nei ricordi può conservare soltanto il giorno dello sposalizio o la volta che morì la suocera o quando la nipote di za’ Tituzza, quella che abita a ‘sta banna della chiesa, se ne era fujuta con lo sbirro maritato e padre di figli. Lo sbarco degli americani, le repubblica e la monarchia, il suffragio universale, la politica interna ed estera, la svalutazione ed anche le storie della mafia erano questioni estranee alle donne le quali, al massimo, liquidavano i fatti complicati del vivere sociale con un veloce segno della croce e l’invocazione subitanea di Gesù, Giuseppe e Maria.

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IL SOSPETTO di Friederich Durrenmatt (Adelphi)

“Lei vuole combattere il male e ha paura del mio C’est ça” Disse riprendendo a truccarsi e incipriarsi, di nuovo appoggiata alla porta, al di sopra della quale pendeva, inutile e sola, la vecchia croce di legno. “Lei già inorridisce di fronte a una misera serva di questo mondo, mille volte oltraggiata e disonorata. Come resisterà di fronte a Emmenberger, il principe delle tenebre in persona?”.

Probabilmente di Durrenmatt conoscete La promessa il libro da cui è stato tratto il bellissimo film di Sean Penn con Jack Nicholson. Anche in quel libro il protagonista era un commissario di polizia sulla soglia della pensione con un conto ancora aperto con un vecchio crimine, un tormento che lo accompagna e non gli da tregua.
A Durrenmatt piace un sacco questo tema del tormento e dell’ossessione dei buoni per i cattivi. Anche in questo romanzo infatti il protagonista è un vecchio commissario di polizia svizzero, Barlach, a cui è stato diagnosticato un tumore che gli lascerà pochi mesi di vita, mentre è in ospedale a sfogliare vecchie riviste si imbatte in un articolo su un medico che operava nel campi di concentramento senza anestetizzare i suoi pazienti, a corredare l’articolo una foto in bianco e nero del dottore in procinto di eseguire un’operazione, il volto quasi completamente nascosto dalla mascherina. Tra le atrocità che venivano commesse nei campi di concentramento questa potrebbe sembrare una delle tante, il medico, Nehle, si è suicidato dopo l’uscita dell’articolo, probabilmente schiacciato dalla vergogna, ma l’amico di Barlch, anche lui medico, ha un sussulto alla vista della fotografia: quel volto gli rammenta una persona, un vecchio compagno di studi con la propensione al sadismo… ma non può essere lui, Emmenberger è adesso uno stimato direttore di una clinica super esclusiva per ricchi degenti.
Inizia così il tormento di Barlach: è possibile che dietro al rispettabile volto di un medico stimato da tutti si celi il diavolo che invitava gli internati nei campi a farsi operare senza essere anestetizzati con la promessa che se fossero stati abbastanza forti da superare l’operazione avrebbero ottenuto la libertà?
Questo dubbio sarà per Barlch l’ultima avventura, alla ricerca del diavolo nascosto tra i camici bianchi della clinica, una ricerca continuamente accompagnata dalla riflessione sulla natura del male e delle sue svariate forme, ma anche sulla natura della speranza e sulla necessità di sopravvivere in circostanze talmente eccezionali che sarebbe impossibile giudicare a freddo.

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LO SANNO TUTTI CHE TUA MADRE È UNA STREGA

Sono sbalordita per tutta la fatica e tutte le risorse sprecate in quell’inutile impresa che sono i libri. Ogni fazione proibisce quelli della fazione opposta. È pura vanità. Hans mi dice che i suoi libri possono essere acquistati persino a Roma, e lo dice con orgoglio, e va bene, posso capirlo. Dice anche che il libraio è costretto a nasconderli sotto il banco, e a offrirli solo a coloro che sanno cosa chiedergli… I libri sono come le amanti. Gli uomini se ne vantano. Non sono che un altro palcoscenico per la loro superbia. E avventatezza. Gli unici che mi interesserebbe leggere, credo, sono i libri di storia, ma a quanto so la gente li detesta, cosa che non mi sorprende: la storia ciascuno preferisce inventarsela da sè.

Katharina Kepler era la mamma del famoso matematico imperiale Johannes Kepler, colui che scoprì le leggi che seguono i pianeti per muoversi attorno al sole. Di Keplero possiamo leggere svariate biografie, probabilmente lo abbiamo studiato a scuola quando dovuto studiare Galileo Galilei e Copernico e tutta la rivoluzione scientifica che tra cinquecento e seicento ha posto la terra non più al centro dell’universo.
Della mamma di Keplero invece si sa poco o niente, sarebbe una figura marginale nella nostra storia come le mamme di tutti gli altri grandi uomini che la storia l’hanno fatta, ma Katharina è stata accusata di stregoneria, affrontò la tortura e il processo e poi fu rilasciata perché innocente.

Lo sanno tutti che tua madre è una strega è il racconto di quegli anni, di quelle voci che bisbigliavano nelle stradine del villaggio. Del processo quasi non si parla in questo libro, ci sono solo gli interrogatori ai concittadini di Katharina che giurano davanti a Dio di essere in buona fede nel dichiarare che sicuramente quella donna è una strega. Deve esserlo per forza perché lo era anche una sua zia (ed è risaputo che in una famiglia non vi è mai solo una strega), perché quando passava lei le vacche e i maiali avevano paura e spesso morivano o stavano male, perché le persone si ammalavano e morivano in seguito agli intrugli che lei dava loro da bere, perché quel bambino morì dopo che Katharina si era trasformata in un corvo ed era andata a guardarlo dalla finestra quando il rimedio contro il suo male era che nessuno lo vedesse per almeno una settimana.
E probabilmente lo erano, in buona fede. Sì, perché se una notizia entra nella mente di un intero villaggio e si trova il capro espiatorio perfetto per fargli espiare le colpe collettive e se per puro caso quel capro espiatorio è una donna, vedova, alla quale si devono anche dei soldi e ha un figlio che ha avuto successo al contrario di molti concittadini… beh… è evidente che in quella donna c’è qualcosa di malvagio.
Una donna sola, che non si comporta da vedova inconsolabile, che continua a vivere la sua vita con gioia rallegrandosi dei successi dei suoi figli, che magari pensa e ha delle opinioni o delle conoscenze che le permettono di curare alcune malattie, di preparare degli unguenti… sì certo, quella donna è sicuramente una strega!

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ROMOLO IL PRIMO RE di Franco Forte e Guido Anselmi (Mondadori)

“Roma” sibilò a mezza voce, perché nessuno potesse sentirlo, se non forse quegli stessi dei che presto lo avrebbero giudicato. “Se gli auspici mi saranno favorevoli, la mia città si chiamerà Roma.”

E Roma poi è stata. Nessuno spoiler, mi auguro, lo sappiamo che Romolo ha fondato la città eterna e che eternamente sarà ricordato per questo.
È stato interessante e affascinante per me, dopo aver letto tanti saggi sull’argomento, leggere un romanzo sulla figura di Romolo e sulla fondazione di Roma.
Questo è il primo di sette libri ognuno dei quali si propone di raccontare la vita dei sette re di Roma, dandoci così un’idea più o meno realistica di quello che è successo in quegli anni tra le colline laziali.
Il romanzo è bello. Racconta la vicenda dei due gemelli da quando vengono messi al mondo da Rea Silvia, imprigionata e poi uccisa per essere rimasta incinta del dio Marte (se vogliamo credere al mito), fino all’arrivo del tanto agognato figlio maschio di Romolo Avilio.
Il mito, lo sappiamo, vorrebbe i due gemelli salvati da una lupa e protetti da un picchio, nel romanzo di Forte e Anselmi il mito viene rivisitato e riadattato a quella che è la verosimiglianza storica, sfrondandolo dalla patina eroica e calando i protagonisti nella reale guerra per la sopravvivenza in una terra inospitale.

Rolomo il primo re è un romanzo godibilissimo per chi vuole immergersi nella storia arcaica, pur rimanendo fedele alle versioni più accreditate e verosimili della storiografia, non fa percepire la pesantezza di quelle mille ricerche che ci stanno dietro al racconto. Come molti altri romanzo storici, fa venire voglia di approfondire e di continuare a leggere tutta la serie!

L’UOMO CHE ODIAVA SHERLOCK HOLMES di Graham Moore (Rizzoli)

Immagina questa scena: la pioggia batte contro i vetri spessi di una finestra. Fuori, in Baker Street, il chiarore dei lampioni a gas è così fioco che a malapena raggiunge il marciapiede. Turbini di nebbia vorticano nell’aria e la luce conferisce loro una sfumatura giallo pallido. Il mistero si cela in ogni angolo buio, in ogni stanza buia. Un uomo compare in questo modo oscuro e brumoso e deduce la storia della tua vita osservando il taglio delle maniche della tua camicia. Dissipa le tenebre con il solo aiuto della sua intelligenza e della sua pipa. Ti sfido a negare che non sia terribilmente romantico.

Dopo aver letto “Il verdetto”, uscito di recente per Neri Pozza, ho voluto prendere subito un altro vecchio libro di Graham Moore e ho fatto bene!
Anche questo è un giallo, ovviamente, ma è anche un pochino un romanzo storico, il che non guasta mai.
La storia si sviluppa infatti su due binari: da una parte durante un convegno di Sherlockiani, Alex Cale, un famoso studioso di Conan Doyle, viene trovato morto nella sua camera, un laccio intorno al collo e sul muro, scritto sol sangue, la parola “elementare”. Sembrerebbe un omicidio ispirato al romanzo Uno studio in rosso, il primo che ha come protagonista Sherlock Holmes. Sarà compito di Harold White scoprire cosa sia successo veramente e dove sia finito il misterioso diario di Conan Doyle che mai prima d’ora era stato ritrovato dopo la morte del suo autore, e che Cale aveva annunciato di aver scoperto. Dall’altra parte invece seguiamo lo stesso Conan Doyle nel periodo del così detto Grande Iato, quegli anni in cui, stanco della celebrità del suo personaggio, aveva deciso di farlo morire in un ultimo scontro col suo acerrimo nemico Moriarty. Nel misterioso diario scomparso sono raccontati proprio quei mesi in cui Conan Doyle cambia idea prima di resuscitare Holmes e di restituirlo ai suoi lettori con Il mastino dei Baskerville. Potete ben capire come per gli appassionati questo diario sia come il Santo Graal e come il desiderio di leggere quelle pagine possa portare qualcuno di loro a commettere persino un omicidio.

Moore mescola finzione e realtà ed è difficilissimo capire quale sia l’una e quale l’altra, di sicuro, prima di arrivare all’ultimo capitolo, dove l’autore spiega quali sono le parti inventate, è molto appassionante immergersi in un’avventura piena di colpi di scena e di aneddoti sul giallista più famoso del mondo.

NOI, UMANI di Frank Westerman (Iperborea)

Perché preferisco il reportage al romanzo? La risposta più semplice è: perché davanti alla vita vera non c’è finzione che tenga. Mi imbatto di continuo in storie realmente accadute così inverosimili che, se immerse nella finzione letteraria, perderebbero subito ogni residuo brandello di credibilità.

Tutto comincia con un corso all’università e con la scoperta di un cranio. Non è un cranio qualunque però è un cranio speciale: appartiene a un ominide delle isole di Flores, in Indonesia, un uomo particolarmente basso, che non arriva al metro e mezzo. E come può qualche osso scatenare una polemica mondiale sull’origine dell’uomo? Prova a capirlo Westerman, giornalista e scrittore olandese che aveva già pubblicato diverse cose con Iperborea, come L’enigma del lago rosso. Quello che scopre è che in realtà nel mondo dell’antropologia e della paleontologia ogni piccola scoperta è tanto importante quanto assurda perché le speculazioni che nascono da un piccolo frammento di osso possono essere infinite. Ne è una dimostrazione pratica l’Homo floresiensis: il suo piccolo cranio è difficile da inserire nell’albero genealogico dell’intera umanità: c’è chi dice che sia contemporaneo all’homo sapiens, chi all’uomo di Neanderthal, chi invece addirittura sostiene che sia tutto falso che sia un uomo contemporaneo affetto da nanismo… Insomma ogni studioso ha la sua teoria, sembra quasi che ognuno racconti una storia, che arricchisca e infiocchetti un qualcosa che non capisce fino in fondo, non solo, le varie scoperte sembrano avere un’eco più o meno ampia a seconda del momento storico in cui vengono fatte.

Se a tutte queste riflessioni scientifiche andiamo ad aggiungere anche quelle etiche e filosofiche, la confusione aumenta. Cosa ci rende umani? Qual’è l’ominide che dalla dimensione scimmiesca e animale passa a quella umana? Cosa in definitiva ci distingue dagli altri animali e perché come uomini ci sentiamo superiori a loro?
Anche in questo caso le teorie abbondano, guidate soprattutto dalle sensibilità personale dei vari studiosi. Altro esempio lo sviluppo del linguaggio: per un sacco di tempo gli studiosi, uomini, hanno pensato che avendo sviluppato delle tecniche di caccia più raffinate i gruppi di ominidi avevano la necessità di comunicare tra loro in modo più preciso e questo li ha costretti a sviluppare la parte del cervello dedicata al linguaggio. Negli ultimi tempi però altre studiose, donne, hanno proposto una teoria alternativa: poiché la postura eretta non permetteva più ai piccoli di ominide di rimanere attaccati alle madri, queste hanno dovuto inventarsi un modo per far sentire la loro presenza ai bambini piccoli pur non avendoli sempre addosso, da qui lo sviluppo di suoni che si sono trasformati in cantilene, filastrocche.. insomma linguaggio.

Questi sono solo alcuni esempi dei tantissimi spunti di riflessione che vengono fuori da questo libro, un catalogo ricchissimo di informazioni sulle nostre provenienze e sulle varie correnti di pensiero che studiano le nostre origini, pieno di nomi di studiosi, di aneddoti curiosi che li hanno visti protagonisti e di vere e proprie guerre diplomatiche intraprese per riportare a casa i resti dei primi ominidi.
Un saggio affascinante che fa riflettere su come siano effimere le convinzioni che abbiamo e su quanta strada abbiamo ancora da fare per cercare di capire qualcosa sulle nostre origini per avere un pochino più chiaro quale sarà il nostro futuro.

LE ULTIME ORE DI LUDWIG POLLAK di Hans von Trotha (Sellerio)

Un tempo pensavo che solo per me Roma rivestisse una così grande importanza, fosse solo per me una terra benedetta. Fin quando non ho capito che Roma non è semplicemente una città che conviene ad archeologi e a mercanti come nessun’altra, e chi ama l’arte vi trova il paradiso in terra, una città che rende imperatori, re e papi proprio quello che sono. No, Roma è qualcosa di più. Roma non è semplicemente una città, Roma è un’idea, è l’emblema della grandezza.

Questo è un romanzo d’amore che parla d’amore. L’amore di Ludwing Pollak per il suo mestiere, per Roma, per le arti antiche, per la conoscenza tutta. E traspare dalla pagine l’amore di Hans von Trotha per Ludwing Pollak. Anche lui si imbatte per caso in questa figura dimenticata della cultura romana e mondiale, ci inciampa leggendo un altro libro e da lì si interessa alla figura di questo archeologo, antiquario, un erudito su tutto quello che c’è da sapere sull’antichità. Pollak era austro-ceco, ebreo, innamorato di Roma e della sua storia. Un collezionista e un curatore di collezioni. Pollak era anche ebreo e come tutti gli ebrei finì sulla lista di Dannecker, il capitano delle SS incaricato da Eichmann di rintracciare e deportare gli ebrei di Roma ad Auschwitz.

Il romanzo di Trotha inizia così, in quel pomeriggio tardo, prima del coprifuoco, con l’anonimo K. che cerca invano di convincere lo studioso a rifugiarsi in Vaticano insieme alla sua famiglia, prima che arrivino a prelevarlo. Ma Pollak non sente ragioni, non riesce a credere che arriveranno davvero. Durante la sua vita ha visto come per un ebreo farsi strada negli ambienti elevati della cultura Europea fosse quasi impossibile, ma la sua costanza e la sua immensa conoscenza gli hanno permesso di arrivare là dove nessuno prima era arrivato, di ricevere onorificenze che a un ebreo mai erano state concesse, e poi, piano piano, man mano che il secolo seguiva il suo corso, neppure quelle medaglie e quegli attestati poterono nulla contro il dilagare dell’antisemitismo.

Come un anziano testardo invaghito dei bei tempi andati, Pollak non accenna a muoversi dal suo studio continuando a ricordare tutto quello che ha fatto per la cultura passando dal suo amore per Goethe, che a sua volta gli trasmise l’amore per l’Italia, alle sue scoperte nei mercatini delle grandi capitali. E la cosa più grande, l’impresa più bella, la lascia per ultima: il famoso braccio del Laocoonte, uno dei pezzi mancanti della statua, per anni immaginato e ricostruito come un braccio teso verso il cielo, il braccio di un eroe, ritrovato e riconosciuto per caso in un negozietto di Roma, un pezzo di statua in mezzo a tanti altri. E quel braccio non è teso verso il cielo, non è il braccio di un eroe, è ripiegato indietro, il serpente ha già vinto.

STORIACCE

HIDDEN VALLEY ROAD – NELLA MENTE DI UNA FAMIGLIA AMERICANA di Robert Kolker (Feltrinelli)

La biologia è il destino, in un certo senso: questo è innegabile. Ma ora Lindsay capiva che siamo più dei nostri stessi geni. In qualche modo siamo un prodotto delle persone che ci circondano – le persone con cui siamo costretti a crescere e quelle con cui scegliamo di passare la vita.
I rapporti che abbiamo possono distruggerci, ma possono anche cambiarci, o guarirci. e, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, ci definiscono.
Siamo umani perché le persone che abbiamo attorno ci rendono tali.

Dal 1945, dopo essersi sposati precocemente, Don e Mimi Galvin cominciano a sfornare figli: Donald, Jim, John, Brian, Michael, Richard, Joe, Mark, Matt, Peter, Margaret e Mary, nata nel 1965. Da piccola, all’età di 7 anni, Mary immaginava di legare suo fratello Donald a un albero e dargli fuoco. Non sopportava più il suo carattere così instabile, violento ed egocentrico, il suo vestirsi come un monaco e andare in giro per strada a salmodiare messe immaginarie per il quartiere. Mary voleva solo che stesse zitto.

Comincia in questo modo così scioccante questo saggio di Robert Kolker, per poi tornare indietro, all’inizio di questa vicenda, partendo dal matrimonio di Don e Mimi, tutto per raccontarci la storia di questa numerosissima famiglia americana e, attraverso i suoi componenti, l’evoluzione della considerazione e della cura della schizofrenia. Sì perché dei dodici figli dei Galvin sei soffrirono di schizofrenia.

Piano piano, la casa dei Galvin a Hidden Valley Road, a Colorado Springs in Colorado, fu teatro di un’escalation di tensioni, litigi e abusi tra i fratelli: i più grandi tiranneggiavano sui più piccoli in modo violento, mentre la madre Mimi distoglieva lo sguardo commentando amabilmente che “essendo ragazzi, dovevano sfogarsi in qualche modo”. Il padre Don era praticamente sempre assente, in viaggio per lavoro o dietro a qualche gonnella. Le due bambine più piccole, le ultime della nidiata, sole e spaventate da quel clima violento cercavano in tutti i modi di stare fuori di casa, agognando l’attenzione della mamma. Crescere in un clima del genere era complicato: senza spazio per se stessi, senza privacy e costantemente in competizione l’uno con l’altro. Ma c’era di più: piano piano, cominciando da Donald, i figli dei Galvin cominciarono a fare avanti e indietro dai reparti psichiatrici degli ospedali di zona e nel giro di pochi anni anni, una volta raggiunta la maturità, a sei di essi fu diagnosticata la schizofrenia.
A sei su dodici.

Attraverso la complicatissima storia di questa famiglia, Kolker ripercorre la storia della malattia stessa e di come è stata scoperta e trattata negli anni, fino ai giorni nostri. Un incredibile resoconto che mette in luce le diverse correnti di pensiero su una malattia le cui origini sfuggono tutt’ora alla comprensione: da una parte chi sostiene che la schizofrenia abbia origini genetiche e quindi la sua natura vada ricercata nella storia genealogica delle famiglie, e dall’altra chi invece pensa che abbia un origine ambientale. Queste due filosofie di pensiero e di approccio si sono rincorse per tutto il secolo fino ad arrivare a un sommario pareggio, la teoria più accreditata al momento è infatti una coesione delle due, una predisposizione genetica sbloccata dagli imprevisti della vita nell’età preadolescenziale.

Ricostruendo questo dramma familiare, tragico e doloroso non solo per i ragazzi malati, ma anche per quelli sani, per coloro che hanno visto i fratelli ammalarsi e impazzire sotto i loro occhi, aspettandosi di essere i prossimi sulla lista, Kolker, con una prosa precisa e allo stesso tempo divulgativa, accompagna il lettore nei reparti psichiatrici e nei laboratori di analisi, senza perdere la sensibilità e avendo sempre presente che i malati non sono solo malati, ma sono persone e che il soffrire di disturbi psichiatrici, che per secoli sono stati causa di esilio sociale e alienazione, non significa perdere la dignità.
Dietro quei numeri e quegli occhi spiritati, oltre le voci che sussurrano alle orecchie e alle allucinazioni, ci sono delle persone. Chissà che grazie al contributo di questa straordinaria famiglia la ricerca non riesca a fare un ulteriore piccolo balzo in avanti e donare una nuova speranza.

Quale saggio migliore per inaugurare la nuova rubrica “STORIACCE”?!?

L’ASSURDA EVIDENZA – UN DIARIO FILOSOFICO di Francesco D’Isa (Tlon)

“Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”.
Sognare, non capire.

In poco meno di 80 pagine Francesco Di’sa, filosofo e artista visivo, parte dalla sua esperienza personale di dolore e sofferenza per approdare nel mondo dell’assurdo e del paradosso filosofico.
Questo volumetto, che apparentemente vola vio in un solo pomeriggio, ma che richiederebbe una lettura molto più attenta, è una specie di riassunto densissimo del percorso filosofico e umano che D’Isa ha intrapreso dalla sua adolescenza fino agli anni più recenti. Tutto parte dalla sua esperienza e da una delle enormi domande che perseguitano l’uomo da quando ha imparato a pensare: perché soffriamo? A cosa serve il dolore che percepiamo? E perché continuiamo a cercarci un senso?

Senza addentrarmi troppo in una materia non mia, posso dire però che nonostante l’argomento sia complicato e contorto, arrivando a scomodare gli unicorni visibili e invisibili che potrebbero esistere, il saggio di D’Isa lascia con la sensazione che effettivamente le nostre convinzioni su quello che sia reale o irreale non sono poi così certe, o almeno non dovrebbero esserlo, perché la realtà non è definita in se stessa, ma è sempre in relazione con qualcosa d’altro e questo altro è per necessità differente da lei. Quindi è possibile definire una cosa (materiale o immateriale, astratta o concreta) solo elencando tutte le altre cose che questa non è, alcune saranno più funzionali altre meno, ma tutte saranno vere.
Ora tutto questo filosofeggiare su essere e non essere fa immediatamente pensare a noi, in quanto persone, in quanto persone in mezzo ad altre persone, nella nostra individualità che, seguendo questo ragionamento, è data proprio dalle differenze che ci distinguono dagli altri, differenze preziose preché senza di esse neppure noi esisteremmo.