Un tempo pensavo che solo per me Roma rivestisse una così grande importanza, fosse solo per me una terra benedetta. Fin quando non ho capito che Roma non è semplicemente una città che conviene ad archeologi e a mercanti come nessun’altra, e chi ama l’arte vi trova il paradiso in terra, una città che rende imperatori, re e papi proprio quello che sono. No, Roma è qualcosa di più. Roma non è semplicemente una città, Roma è un’idea, è l’emblema della grandezza.
Questo è un romanzo d’amore che parla d’amore. L’amore di Ludwing Pollak per il suo mestiere, per Roma, per le arti antiche, per la conoscenza tutta. E traspare dalla pagine l’amore di Hans von Trotha per Ludwing Pollak. Anche lui si imbatte per caso in questa figura dimenticata della cultura romana e mondiale, ci inciampa leggendo un altro libro e da lì si interessa alla figura di questo archeologo, antiquario, un erudito su tutto quello che c’è da sapere sull’antichità. Pollak era austro-ceco, ebreo, innamorato di Roma e della sua storia. Un collezionista e un curatore di collezioni. Pollak era anche ebreo e come tutti gli ebrei finì sulla lista di Dannecker, il capitano delle SS incaricato da Eichmann di rintracciare e deportare gli ebrei di Roma ad Auschwitz.
Il romanzo di Trotha inizia così, in quel pomeriggio tardo, prima del coprifuoco, con l’anonimo K. che cerca invano di convincere lo studioso a rifugiarsi in Vaticano insieme alla sua famiglia, prima che arrivino a prelevarlo. Ma Pollak non sente ragioni, non riesce a credere che arriveranno davvero. Durante la sua vita ha visto come per un ebreo farsi strada negli ambienti elevati della cultura Europea fosse quasi impossibile, ma la sua costanza e la sua immensa conoscenza gli hanno permesso di arrivare là dove nessuno prima era arrivato, di ricevere onorificenze che a un ebreo mai erano state concesse, e poi, piano piano, man mano che il secolo seguiva il suo corso, neppure quelle medaglie e quegli attestati poterono nulla contro il dilagare dell’antisemitismo.
Come un anziano testardo invaghito dei bei tempi andati, Pollak non accenna a muoversi dal suo studio continuando a ricordare tutto quello che ha fatto per la cultura passando dal suo amore per Goethe, che a sua volta gli trasmise l’amore per l’Italia, alle sue scoperte nei mercatini delle grandi capitali. E la cosa più grande, l’impresa più bella, la lascia per ultima: il famoso braccio del Laocoonte, uno dei pezzi mancanti della statua, per anni immaginato e ricostruito come un braccio teso verso il cielo, il braccio di un eroe, ritrovato e riconosciuto per caso in un negozietto di Roma, un pezzo di statua in mezzo a tanti altri. E quel braccio non è teso verso il cielo, non è il braccio di un eroe, è ripiegato indietro, il serpente ha già vinto.